Le dipendenze patologiche rappresentano un fenomeno sociale sempre più diffuso, una sacca di disagio psicologico dai contorni sfumati, che si nutre di “oggetti” sempre nuovi cui agganciarsi. Infatti, le dipendenze si evolvono nel tempo, assumendo forme nuove al passo con le mode e le tecnologie.

Se fino a pochi anni fa si parlava prevalentemente di Tossicodipendenze ed Alcoolismo, oggi meritano attenzione quelle che vengono definite Dipendenze Comportamentali,  tra le quali è possibile annoverare il Gioco d’azzardo patologico (o Ludopatia), la dipendenza da internet, dal telefono cellulare (con tutte le sue APP), la dipendenza dal sesso. Inoltre non si può non prendere in seria considerazione la grande area della Dipendenza Affettiva.

In generale, si parla di dipendenza quando un comportamento, che agito sporadicamente con atteggiamento ricreativo provoca piacere e soddisfazione, diventa una compulsione non più gestibile dalla persona, una schiavitù che non genera l’iniziale piacere, al contrario arreca rischi e danni a chi lo agisce. L’obiettivo del comportamento dipendente diventa un altro, fuggire da qualcosa di profondamente sgradevole della propria esperienza con cui non si vuole entrare in contatto.

Le Dipendenze, perciò, rappresentano delle vere e proprie strategie di “evitamento” delle emozioni sgradevoli o dolorose, allontanando la persona da fette della propria esperienza che non vuole o non si sente in grado di affrontare.   Gli aspetti di impulsività dei comportamenti compulsivi propri delle dipendenze patologiche rappresentano, nella mia esperienza clinica, una alternativa strutturata all’Ansia, il meccanismo è questo:

Un’esperienza o un pensiero genera una emozione scomoda, la quale molto spesso rimane sotto la soglia della consapevolezza, e si genera nell’individuo una attivazione fisica di matrice ansiogena, la quale  impulsivamente fa da innesco al comportamento compulsivo proprio della dipendenza, ben prima che si attivi la sensazione di ansia. Agendo la propria dipendenza la persona vive un momentaneo senso di benessere, allontanandosi dalla percezione di ansia che sarebbe scaturita se non si fosse attivato l’impulso.

L’emozione scomoda genera ansia e disagio nell’individuo quando non la vuole assolutamente provare, percependosi incapace di affrontarla e di gestire quegli aspetti della propria esistenza che l’hanno portato a provare quell’emozione.  La dipendenza offre d’impulso la via di fuga momentanea dall’ansia e da quell’emozione che l’ha generata. Ciò determina un circolo vizioso, proprio perché le cause che danno vita a quella brutta emozione non vengono affrontate e risolte, così che, finito l’effetto piacevole o di stordimento prodotto dalla condotta dipendente, la persona si ritrova nella situazione di partenza, pronta ad agire nuovamente la propria dipendenza quando una nuova esperienza o un nuovo pensiero genereranno di nuovo quella scomoda emozione.

S. Freud parlava di “coazione a ripetere” descrivendo i meccanismi ripetitivi caratteristici delle psiconevrosi, oggi la Psicologia contemporanea chiama “comportamenti compulsivi” quegli atteggiamenti ripetitivi incontrollabili che hanno la funzione di disattivare l’ansia e la sua declinazione emozionata, l’angoscia,  letteralmente distogliendo l’attenzione dalle emozioni sgradevoli in grado di generarla. Le dipendenze sono proprio comportamenti compulsivi.

Come uscire dalle dipendenze patologiche?

Non è facile e difficilmente da soli ci si riesce. Il primo passo è riconoscere di soffrirne e comprendere che in realtà le dipendenze non sono il problema, ma la soluzione inefficace agita per cercare di risolvere un problema che è di natura emotiva/esistenziale.  Iniziare a chiedersi “come mi sento?” quando arriva quell’impulso ad agire la dipendenza può aiutare ad entrare maggiormente in contatto con se stessi, con quell’emozione scomoda, e magari scoprire che ci sono mancanze, bisogni insoddisfatti, frustrazioni che si ha la certezza di non essere in grado di affrontare efficacemente.

Molto spesso dietro alla fuga nelle dipendenze c’è la paura di scoprirsi dei falliti o degli incapaci, che se si prova ad affrontare quel dato problema della propria vita ci si esporrà ad un probabile fallimento, ed allora meglio non pensarci, svicolare. Rispondere autenticamente a quel “come mi sento?” vuole un atto di coraggio, stare con la paura di sentire l’ansia, la minaccia che quella poca stima in sé sia reale mancanza di valore personale, ma implica anche il riconoscimento dell’inevitabilità del mettersi in gioco realmente, aprendo ad un rimaneggiamento dell’immagine di sé.

Questa è una buona base per iniziare a spezzare il meccanismo della ripetizione del comportamento disfunzionale.

Un altro passo importante consiste nel cercare sostegno e soddisfazione nelle relazioni e nella condivisione.

Cercare l’aiuto di un professionista è raccomandabile.